lunedì, agosto 14, 2006

I Dupree, un problema di verita'

CAPITOLO I°

Soltanto lo zio Albert Lucius Morton sarebbe riuscito a leggere il giornale tenendolo appiccicato alle lenti dei suoi spessi occhiali, ma c'era una ragione precisa.
Anche per leggere questo racconto non serve arrivare a strofinare il proprio naso sulle pagine, nè tantomeno porre il libro ad una distanza tale a quella che consentirebbe di ammirare nella sua completa floridezza Miss Laura Lee.
E' una questione di distanze, appunto..., o meglio di angoli e modalità di osservazione, di prospettiva.
Dunque oltre all'abbondanza, per così dire...fisica, il Signore era stato generoso con Miss Laura Lee anche per quanto riguardava i suoi polmoni, dai quali era in grado di soffiare tanta aria da far vibrare, insieme alle sue corde vocali, le bretelle di tutti quegli uomini che la sera si assiepavano nel suo locale.
Quel locale era, in realtà, la vecchia chiatta con la quale suo nonno Samuel trasportava merci e animali da un argine all'altro del fiume, prima che costruissero il ponte giù a Maynard.
Ora quelle quattro assi inchiodate come meglio poteva fare una donna, ormeggiate sulla riva destra del fiume, vicino ad un grosso salice, ricoperte con un tetto di paglia e fango, si imponevano alla vista di ogni vagabondo che percorresse il sentiero per Georgeville.
Le pareti di legno e cartone che costituivano il capanno dove il vecchio barcaiolo viveva, nascondevano invece agli sguardi più indiscreti, curiosi o bigotti, quella umana promiscuità che nelle sere di festa, al suono del blues, dimenticava il ruolo che il resto della civiltà gli aveva attribuito.
Il sentiero deviava bruscamente a sinistra, verso il salice, e dopo qualche passo nell'acqua bassa, si saliva su una malsicura passerella che conduceva ad un porta sulla quale si leggeva semplicemente: "LAURA LEE".
Gli spettacoli che Miss Laura offriva nella sua barrel-house, avevano quasi sempre due spettatori, non del tutto indesiderati, che, dai loro insoliti punti d'osservazione, immagazzinavano nelle loro giovani memorie, immagini e suoni che avrebbero costituito un invidiabile, quanto prezioso archivio, per le loro imprese nel mondo degli adulti.
Sebbene la mia, come credo la vostra attenzione, sia maggiormente incline a seguire le "idee" di Miss Lee, protagonisti delle vicende narrate, sono invece quei due clandestini che dimostravano di ben conoscere come trascorrere proficuamente una sera di "Ognissanti", in una tranquilla cittadina agricola del Sud.
Moses ed Elmore Dupree, rispettivamente diciassette e tredici anni, potevano indubbiamente asserire che quel Padre Eterno, che era stato così generoso con chi ben sappiamo, non lo era stato affatto con loro, e tantomeno con i loro genitori.
Naturalmente loro non se ne lamentavano, anzi ciò costituiva un pretesto per interpretare la volontà divina, che desiderava mettere alla prova la loro capacità di sopportazione, come predicava la zia Petunia, presso la quale vivevano.
Lo zio Lucius lo attribuiva invece ad un preciso disegno degli uomini, che non aveva niente di provvidenziale, e richiedeva semmai l'intervento dall'alto, affinchè non si ritenesse autorizzato ad intervenire lui stesso.
Comunque fosse, i due fratelli consideravano che un occasionale "strappo" alla catechesi di zia Petty, non poteva certo provocare le ire divine più di quanto non dimostravano di essere già state risvegliate.
Lo strappo era appunto costituito dalle visite notturne al ritrovo sul fiume di Miss Laura.
Difficilmente due sentieri che percorrono i campi assolati del Sud non finiscono per incontrarsi da qualche parte, forse soltanto un remoto incrocio in prossimità di un ruscello, oppure un dimenticato vialetto che li interseca.
Quello che univa le due anime dei fratelli Dupree era proprio unicamente questo segreto accordo, dopo di che ognuno imboccava la propria strada in direzione della vita.
I fiumi della Louisiana non hanno affatto fretta di raggiungere il mare; si distendono volentieri in ogni ansa e si trattengono silenziosamente in ogni canale, saggiamente considerando l'inutilità di inseguire una meta ormai prossima.
Moses, quella sera di ognissanti, sembrava l'unica persona in quella regione a non partecipare di quest'atmosfera.
Raggiunse la sua barca in riva al fiume, la liberò dal groviglio dei rami del salice che la trattenevano in quello stato di calma secolare, la lanciò sulla superficie argentata verso i primi accordi blues.
Il Mississipi non lo spinse in nessuna direzione, semplicemente osservava, il remo, invece, muoveva vorticosamente l'acqua al ritmo del suo cuore, finchè si fermò in prossimità dell' "inferno galleggiante".
Raggiunse in breve il suo osservatorio privilegiato, assicurò l'imbarcazione ad uno dei pali che sosteneva, a mezzo metro dal pelo dell'acqua, il locale di Miss Lee.
Si sdraiò sul fondo della barca attento a posizionarsi proprio sotto un'ampia fessura attraverso le assi del pavimento.
La sua prospettiva in quell'attimo si ribaltava, come se stesse scoperchiando la botola di un universo sotterraneo, come se stesse osservando una donna attraverso lo spazio tra due bottoni forzosamente chiusi all'altezza del seno.
Le enormi scarpe, piene di fango, sfilavano allora dinnanzi al suo spiraglio sull'inverosimile, la polvere fioccante sembrava sfidare la sua ostinazione, tentando di renderlo impreparato di fronte all'attimo atteso, in cui un paio di mutande indugiavano sull'ingordo baratro.
Un bianco bagliore innondava quella fenditura, mentre per un istante il respiro si interrompeva.
Moses considerava allora la zia, timorata educatrice, il fiume, silenzioso complice, Dio, inerme osservatore, alla luce di quel raggiunto obiettivo, come ostacoli la cui esistenza scagionava i più deboli per i loro insuccessi.
La vita, che gli aveva disposto il sentiero come il bosco intorno alla distilleria clandestina del vecchio Hathaway, lo gratificava ora con quel risultato, di cui poteva a buon diritto godere a piene mani.
Alla fine di settembre, a Georgeville, c'è una fiera durante la quale viene premiata la zucca più grossa: i contadini dedicano pertanto tutte le loro attenzioni per quell'esemplare del loro campo che appare maggiormente degno di ottenere il riconoscimento, lasciando alle donne la cura delle restanti, meno appariscenti, commestibili rotondità.
Moses era proprio alle prese con la sua metaforica zucca.
Come quel contadino, aveva scelto l'angolo del suo campo atto a tale scopo, aveva rimosso la terra in profondità, aveva portato l'acqua, aveva atteso le cure del tempo, aveva lasciato all'altrui attenzione ciò che non rientrava nel suo piano.
Il ritmo travolgente del blues giungeva all'orecchio del nostro ascoltatore troppo sommerso nel rumore dei passi che battevano sulle assi del pavimento, affinchè potesse rappresentare per lui una giustificazione a ciò che avveniva di sopra, nè tantomeno, da quella posizione, poteva apprezzare l'ipnotismo vocale delle esibizioni di Miss Lee, più delle sue facoltà "nascoste".
Sebbene non avesse preferenze particolari per alcun mondo "sottogonnale" si trovasse a sorvolare la sua visuale, vi erano occasioni in cui la difficoltà ad intravedere quell'alone di biancheria sullo sfondo di ogni scuro ricettacolo (quasi fosse un fiore sul punto di sbocciare), alimentava l'idea di un'assoluta mancanza dell'indumento, facendolo gioire di queste esperienze rispetto alle altre.
Così fu anche quella sera.
Una figura in particolare, di cui aveva imparato nel frattempo a riconoscere l'incedere, stuzzicava la sua fantasia in quella direzione.
Come vedete, i sensi di Moses erano all'erta come i cani nel cortile della fabbrica di birra di Mr. Burke : l'occhio selezionava i protagonisti in quello spiraglio di semioscurita ed indagava i particolari.
L'orecchio raccoglieva lo strisciare sulla superficie legnosa stimando l'avvicinarsi del proprietario; il naso catalogava gli odori o i profumi da associare alle inquadrature.
Tutto si muoveva perfettamente all'unisono intorno all'unico fine, come il martellare del pianoforte, il vibrare della chitarra, il frustare l'aria dell'armonica, il gemito dei polmoni nell'ultimo accordo di "Freight train blues".
Tutto subiva l'implacabile selezione in ragione del grado di importanza e valore attribuito, venendo a collocarsi negli ambiti predisposti, davanti o dietro, come sui tram di Maynard...

CAPITOLO II°

Elmore non aveva una barca, ma i suoi piedi erano in grado di condurlo in città e riportalo a casa in una giornata.
La sua meta, per quella sera, era però più vicina, e non ci fu bisogno di chiedere alle sue gambe di mostrare cosa sapevano fare.
Il locale di Miss Lee si trovava circa mezzo miglio fuori dall'abitato ed Elmore ci giunse con quella rassegnata tranquillità di un raccoglitore di cotone, dopo aver fatto visita a tutti quegli spinosi, quanto prodighi arbusti del campo del suo "Massà".
Saltava da un lato all'altro del sentiero, dentro e fuori i solchi lasciati dal peso dei carri, fermandosi ad ogni pozzanghera alla ricerca di qualche festoso ranocchio.
Rincorreva fino al canneto una lucciola, che andava a competere con un milione di riflessi che la luna appoggiava sul lento fluire del grande fiume.
Tendeva l'orecchio al frusciare di ogni singola foglia dei salici, che si allungavano ad abbeverarsi in un angolo di fiume catturato dal fitto canneto; sembrava non aver una, ma mille mete.
Giunto alla passerella, salì sulla staccionata che cingeva la veranda, si aggrappò alla sporgenza del tetto e vi si arrampicò.
Spostò, con perizia, un fascio di canne che impediva il passaggio per raggiungere la trave che costituiva il suo osservatorio: in quel momento la sua prospettiva si ribaltava, quasi stesse spiando attraverso le nuvole i suoi angeli affaccendati.
Scuri cappellini si trascinavano dietro generose scollature, mentre teste impomatate o crespe, come neri batuffoli di cotone, contrastavano con camicie più o meno bianche.
Nulla, in particolare, o forse tutto, attirava il suo sguardo, come stesse cercando di prestare attenzione ad ogni singola voce di un coro godspell, ad ogni sillaba pronunciata dialogando con il battito delle mani.
Come quel pazzo suono proveniente dal suo banjo, fatto con una padella per il pane ed un vecchio manico di una chitarra abbandonata in soffitta, raggiunse per la prima volta l'orecchio di Gus Cannon, senza pretese di essere nient'altro da quello che era; come i campi fuori la prigione che innondarono lo sguardo di Leadbelly, libero, dopo l'intervento del governatore del Texas, senza pretese di essere nient'altro da quello che erano, lo spettacolo che andava in scena sotto i suoi occhi, travolse il giovane Elmore.
Nessuna strada lasciava intravedere maggiori promesse di un'altra, a quell'incrocio, dopo che Robert Johnson stipulò il suo patto col Diavolo, la vita scorreva in tutte le direzioni: mille travi non sarebbero bastate a sorregere mille piccoli Dupree, spettatori di mille frammenti della danza della vita che scorreva lì sotto al ritmo del blues.
Elmore scendeva in mezzo a quel flusso, gli occhi si attaccavano a quelle frivolezze di pizzo che incorniciavano abbondanze nere, saltavano sui tasti neri e bianchi con le mani di un qualsiasi Skip James, inseguivano le falene che si immolavano sul vetro del paralume.
L'orecchio correva sul washboard (asse per lavare i panni) insieme a quel suono trascinato, entrava tra le corde vocali di miss Lee, cadeva con il wiskhi nel bicchiere, usciva nei silenzi del grande fiume.
L'olfatto si innalzava con l'odore del prosciutto fritto e del pane di mais e le mani scolpivano ogni corpo abbracciato nel ballo.
Una figura lo attrasse, in particolare, al centro di un vortice di sensazioni, senza un'apparente motivazione.
Niente si muoveva all'unisono, ogni cosa seguiva, in un frenetico sviluppo, la sua inevitabile evoluzione, come un gruppo di schiavi che abbandonano la piantagione dopo aver ucciso il sorvegliante.
Tutto scompariva nell'eterna immutabilità del tempo, senza trovare una precisa collocazione, come le acque del Mississipi quando raggiungono il mare.
Moses ed Elmore Dupree, dai loro angoli di mondo, non diedero importanza a quella strana sensazione di familiarità che li attirò intorno ad una vaga ed eccitante figura nel locale di Miss Laura Lee : era la zia Petunia Morton.

EPILOGO

Certo un solo epilogo non sembra sufficiente, ma confido che i rimanenti riterrà opportuno trascriverli il mio buon lettore.
Non una, non due, ma infinite sono le verità, poichè infinite sono le prospettive; questo potrebbe a buon diritto sostenere ogni attento osservatore.
Ma le cose non stanno del tutto così ! (se non da un solo lato).
Il rapporto con la verità può avvenire soltanto su un piano culturale e pertanto determinato da modalità prospettiche; il problema della verità è un problema culturale.
Non può esservi un'antitesi, una non-verità, poichè non può esservi una non-cultura.
L'uomo è un prodotto culturale,...e non può essere altro da sè, o, come dice un proverbio africano: "...per quanto a lungo un tronco galleggi nel fiume, non diventerà mai un coccodrillo."
Nessuno può muoversi, nemmeno per un secondo, fuori dal suo universo culturale,...ma...forse...in privato...dopo lo spettacolo...nella stanza di Miss Laura Lee...

Nessun commento: